Figli di un Bronx minore

cop_figliUn urlo lungo venti anni, un urlo diventato, una nenia che ci accompagna come fosse un incubo. Son passati venti lunghi anni dalla pubblicazione di Figli di un Bronx minore di Peppe Lanzetta che in questi giorni riesce per i tipi della casa editrice Cento autori di Villaricca, ventisei racconti più due inediti: Sara Sarà e La grande Bellezza. Venti anni in una Napoli cambiata, in un mondo cambiato. Affreschi, poesia, rabbia, voglia di uscire dal ghetto che nel frattempo si è fatto paese. Sì, perché leggendo con gli occhi del terzo millennio questo bel libro, si nota che oramai non parliamo più solo di Napoli, si parla d’Italia, d’Europa. Una volta leggendo Peppe Lanzetta si leggeva uno spaccato di una periferia di una città periferica. Oggi è tutta città, o meglio è tutta periferia. Leggendo Scampia, leggi Zen, ma leggi le periferie di Milano, di Torino, di Parigi. Una globalizzazione che ha reso le nostre metropoli tutte uguali, rendendo simile la disperazione dei figli di un Bronx a Catanzaro come a Genova, a Palermo come a Milano. Nella Brianza si sono svegliati e hanno visto che la ‘ndrangheta era sotto casa. Fa specie vedere lo scioglimento di un consiglio comunale per mafia, camorra, ‘ndrangheta a Monza, a Milano. È il paese che è cambiato e questo libro ci aiuta a leggere a distanza di venti anni ancora con grande attualità la disperata disperazione di giovani che nel frattempo sono diventati grandi! Il lavoro quando c’è, e quando c’è… è un guaio, la precarietà in un mondo precario, in una periferia precaria, precari i sentimenti, il vivere, l’esistenza, il trapasso, gli umori, il sesso, i giorni tutti uguali, la disperazione orami non più di Napoli, ma del mondo, un mondo vero, non quello dell’apparire, quel del voler dimostrare quello che non si è come accade sui social network. Tutto questo con una scrittura, corposa, vulcanica, vera a tratti irriverente. Peppe Lanzetta attraverso i sui scritti di vita ci illumina. Così accade che le palazzine, le vele, la ferrovia, Chiaia, i poveri ricchi diventano mondo. Lanzetta come De Andrè in Anime Salve mette in luce, fa diventare protagonisti quelli dimenticati, gli ultimi, con le proprie paure le proprie debolezze. Un urlo lungo venti anni una sorta di profezia diventata poi con Giorgio Bocca, il partigiano scrittore, un saggio dal titolo emblematico: Napoli siamo Noi.

La città descritta dal poeta degli ultimi resta un mistero, una metropoli tentacolare e dannata, troppo fredda e umida, troppo afosa e bagnata, troppo pulp ma nel frattempo romantica, troppo ambigua ma vergine, troppo, troppo, troppo, purtroppo! Lanzetta ripubblica con una piccola ma grande casa editrice napoletana quello che è diventato un bestseller della letteratura italiana. La scelta di uno scrittore affermato e riconosciuto, di rimettersi in gioco dopo avere pubblicato con Feltrinelli, Garzanti, Baldini & Castoldi e ripartire da una piccola casa editrice la dice tutta sul carattere dell’autore e sulla voglia di non legare i suoi scritti, la sua passione narrativa alle major.

Sono affezionato a questo libro, ma sono legato soprattutto a questo racconto presente in Figli di un Bronx, l’Immensità, la storia di Sergio lo zoppo. Ecco un assaggio:

Sergio lo zoppo prima di scendere da casa si guardava allo specchio, si aggiustava i capelli che più che capelli sembravano un cappello o una parrucca tanto erano una sola cosa con la testa e il viso, faceva una piroetta con la sua gamba più corta e si ripeteva: “Faccio proprio schifo!”; s’accendeva la sua Marlboro e se ne scendeva.

Ogni mattina era un’incognita, non sapeva mai cosa fare ma trovava sempre qualcosa, e quando non trovava si andava a sistemare fuori al bar e aspettava che qualche amico gli parlasse di un battesimo, cresima, cerimonia varia e lui subito si offriva come cantante, eh sì perché il suo sogno da bambino era stato quello di cantare e ora lo stava pure accarezzando, da quando uno scellerato gli aveva detto che lui veramente cantava bene.

S’era comprato una giacca laminata, degli orrendi stivaletti neri, e con la sua faccia allungata da cavallo, il suo labbro leporino, la sua gamba ribelle, si chiudeva i pomeriggi a casa e provava. Il suo cavallo di battaglia era L’immensità di Johnny Dorelli. Sua mamma lo sentiva cantare: “Io son sicuro che, in questa grande immensità, qualcuno pensa un poco a me, non mi scorderà. sì, io lo so, tutta la vita sempre solo non sarò.”

Sua mamma abbassava lo sguardo sui calzini da rammendare e le si gonfiavano gli occhi di lacrime. Sergio era la sua croce, ma anche la sua pena. Si era comprato pure una catena finto oro e la indossava nelle serate in cui era richiesto il repertorio di Califano. Gli piaceva tanto il Califfo, gli piacevano Tutto il resto è noia, Tac, Monica, Minuetto che lui però puntualmente storpiava, ma andava bene così: era contento lo stesso il Califano zoppo del suburbio più perso; quando andava a cantare ai matrimoni litigava continuamente con un suo amico che gli faceva da impresario; litigavano un po’ per soldi, ma principalmente per la collocazione. Eh sì perché Sergio, il cui nome d’arte era tutto un programma nel senso che ogni settimana ne cambiava uno, avrebbe voluto uscire nel momento caldo del matrimonio, quindi o dopo il fritto di pesce o dopo la noce di vitello, pietanze classiche dei classici matrimoni napoletani, e invece il suo impresario riusciva a piazzarlo solo alla fine, dopo i confetti, quando praticamente gli invitati già cominciavano a defluire, ormai esausti, coi piedi gonfi, pieni di vino, e al cantante di turno nessuno più prestava attenzione. Alla fine del matrimonio quando tutti erano ormai andati via e i camerieri già alzavano le sedie sui tavoli li vedevi ancora fuori al ristorante che litigavano, Sergio e il suo manager, due spiantati con la faccia di cannelloni o gnocchi, di un applauso agli sposi, due facce non facce, litigavano sul compenso, 150mila lire, e sulla percentuale, ma litigavano ancora di più quando Sergio apostrofava: “Io dopo i confetti non voglio uscire più, la prossima volta o mi piazzi dopo l’antipasto o non ti do manco una lira”. Poi come se niente fosse li vedevi entrare dentro la Regata pezzottata del manager, targata non si sa perché e come Ascoli Piceno, e avviarsi convinti di sentirsi Elvis Presley uno e il Colonnello Parker l’altro. [.]

Andò a cantare a Torre del Greco in un ristorante sul lungomare e si intristì molto perché aveva proposto una sua personale versione di Cogli la prima mela e La pulce d’acqua di Branduardi con esito disastroso, nel senso che gli tirarono addosso bicchieri, fazzoletti, fette di pane, bucce di melone, mentre lui imperterrito continuava: ” Donna che così fiera vai. Cogli la prima mela, cogli la prima mela ah!!!” e giù di tutto, con gli invitati inferociti che volevano sentire invece Guapparia e Munasterio ‘e Santa Chiara. Ma lui quella volta aveva stabilito quel repertorio. O quello o niente. Finì che il suo impresario lo portò via per evitare che lo picchiassero.
Sotto la pioggia, sul lungomare di Torre del Greco, al suo impresario che gli urlava che così non andava bene, che doveva accontentare il pubblico, lui rispose: “Io sono un Artista. Se te ne vuoi andare, vattene. Tanto di impresari come te ne trovo a centinaia”. Il signor Aruta lo abbandonò sotto la pioggia e lui si trascinò dietro la sua zoppicante coscia storta, si rintanò in un bar e buttò giù tre o quattro sambuca.

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