Rosso il romanzo di Mario Aloe cap. 5

17 DICEMBRE 1995 ORE 18:30

«Possiamo affermare, con certezza, che le imprese che ope-rano nel porto hanno tutte i requisisti richiesti dall’attuale normativa. La documentazione viene sottoposta ad un’attenta valutazione e i comportamenti difformi sono sanzionati. Ci sono stati degli episodi legati alle navi dei veleni, ma li abbia-mo subiti come porto di arrivo, come destinazione di navi provenienti da altri luoghi e che nessuno voleva. Siamo stati costretti all’accoglienza ed abbiamo fatto un servizio all’Italia e il nostro dovere di cittadini italiani».
Il funzionario sembrava convinto della bontà dell’argomen-tazione.
«La città ha una tradizione da tutelare: dal porto partono numerosi traffici e sul porto la città ha fatto un investimento di prospettiva, ha praticamente ipotecato una porzione signi-ficativa del proprio futuro. Il traffico, sia in termini di volumi che di trasporti, è in costante aumento. Soffriamo la vicinan-za di Genova, ma stiamo ritagliandoci un ruolo e dobbiamo recuperare gli spazi fisici lasciati liberi dal trasferimento di parte della flotta militare a Taranto ed Augusta. In questa fase delicata non permetteremo che circolino cattive voci, che fantasmi si aggirino per l’Italia: non siamo il porto delle neb-bie, né tanto meno quello dei veleni. Il ridimensionamento della presenza militare ha avuto come conseguenza una dimi-nuzione delle commesse per l’arsenale, con una contrazione dei posti di lavoro e dobbiamo garantire un diverso sviluppo, attrarre operatori e traffico».
Il ragionamento non faceva una grinza: era tipico della sini-stra di governo, tutto incentrato su indici economici, tabelline dei flussi, grafici dei volumi, numeri degli utili, lavoro, posti nuovi creati oppure persi, nuove rotte e collegamenti con il sistema viario.
Questo giovane dirigente, dai modi cordiali e dal sorriso aperto, sicuramente era figlio di un portuale, di un operaio
fortemente sindacalizzato. Lo potevi avvertire dalla cura me-ticolosa nella ricerca del bene comune, dalla sofferenza per la perdita di posti di lavoro, dalla voglia di essere utile e di creare ricchezza per la città.
«Navi, ne sono partite diverse da questo scalo e sembrano svanite nel nulla. Tanti dubbi sono nati sulla merce trasporta-ta, eppure nulla è venuto dalle autorità di controllo, niente è stato accertato. Mi domando se dietro l’apparente normalità sia in atto un’operazione di smaltimento di sostanze tossiche. Chiedere chiarezza, per usare il suo linguaggio, non è un’ag-gressione alla città e fare luce sugli eventi è un dovere per preservare il buon nome della città».
La tirata del giornalista attingeva al patrimonio comune di anni di militanza politica. Avevano frequentato le sezioni del-lo stesso partito, letto la stessa stampa, condiviso le medesi-me speranze, ascoltato gli identici discorsi. Nel manager era rimasta la certezza di una missione, ma Salvatore non capiva quale fosse e se, in nome del progresso e del benessere, altri beni quali la salute pubblica non fossero stati presi in consi-derazione, accantonati, sacrificati.
«Le inchieste giudiziarie aperte sono state chiuse senza ac-certare irregolarità. Niente è stato trovato. Abbiamo messo a disposizione della magistratura quello che avevamo, la nostra struttura, i nostri archivi ed in più il nostro impegno civile non ci consente di eludere le questioni aperte e me lo lasci dire, da compagno a compagno, anche io ho preso informa-zioni su di lei, è la nostra storia che non ci permette di tacere. Gli ambientalisti fanno casino, un casino della malora, ma San Bruno e la discarica sono una cosa, il porto un’altra. Non possiamo correre dietro le voci e permettere così che tante fa-miglie si trovino senza lavoro, con i figli all’università, il mu-tuo da pagare e che tante ansie, già prima della fine del mese, li attanaglino. Ascolti, io vengo da una famiglia operaia ed ho vissuto con orgoglio la mia condizione sociale. Il benessere per me è un momento di riscatto collettivo e non parlo di beni, consumi e denaro, ma di una condizione economica che ci consenta di avere più opportunità e meno difficoltà. Ero per strada a protestare e pretendere la chiusura della discarica
di San Bruno, con la mia famiglia, ai tempi degli scioperi e della sollevazione cittadina. In quel luogo c’era la presenza di diossina, di eternit e di chissà quale altra schifezza, ma il por-to è un bene prezioso, è la nostra storia e il nostro futuro».
La vista sul porto dalla finestra di quell’ ufficio era perfetta con le gru che caricavano su uno dei moli, le navi attraccate alle banchine e il mare di colore grigio plumbeo e azzurro nei tratti illuminati dai fari.
Questo luogo aveva rappresentato la vita di tanti uomini, che partendo da qui avevano costruito le loro organizzazioni: le cooperative di lavoro, il sindacato e messo il naso nella ge-stione dello scalo.
Apprezzava la difesa, rispettava le ragioni addotte: “E se non sapessero? Se fossero all’oscuro? Come era possibile che tutto passasse inosservato. Dovevano caricare navi, imbarca-re containers, mica cioccolatini”.
Con un moto di stizza nella voce il cronista continuò: «“Il bambino è nato”. È stata la magistratura ad accertare i traffici loschi della nave Orione, è ormai un dato certo quello scafo portava la morte. Loro parlano del “bambino che nasce” per salutare l’affondamento a venti km dalla costa ionica calabre-se di una “bomba tossica” e qui è come se fosse tutto a posto e non fosse successo nulla. Non vi interessano questi carichi di morte? Fanno parte, anche essi, dello sviluppo democra-tico?».
« Orione è partita da un altro porto e non dal nostro, da uno scalo a noi vicino, ma non è il nostro porto, dovrebbe bastare come risposta. Qualcosa è dovuto succedere per contraffare i documenti di bordo ed imbarcare scorie al posto della merce dichiarata. Una falla nella catena di controllo, una falla che può ripetersi in altri porti e per questo riteniamo di non esse-re al sicuro ed una zona protetta: la corruzione si annida dap-pertutto e il denaro facile può indurre in tentazione. Siamo qua per vigilare e non siamo i soli, insieme a noi c’è la dogana, gli istituti indipendenti di controllo».
«Sì, ma la motonave Salvezza partiva da qua, da questo porto che definite sicuro».
Aveva deciso di rompere il patto di non belligeranza, voleva
delle informazioni, qualcuno con cui poter parlare, qualcuno che sapesse. Non poteva contentarsi della lezione sul funzio-namento dello scalo e continuò: «Nessuno ha accertato il suo carico, cassoni vuoti ed altri pieni di tabacco e poi un bel giro per il Mediterraneo. Non è possibile che lei creda a questa favoletta. A me sembra che non si voglia approfondire la que-stione e così insabbiarla come quei rifiuti».
«Non è assolutamente vero! Per la Salvezza l’organismo in-dipendente ha certificato lo stato delle attrezzature e non ha riscontrato la presenza di radioattività o altri inquinanti. Il controllo non ci mette al sicuro da possibili azioni illecite, ma non siamo noi che abbiamo il compito di accertarle. Ribadisco che il Porto è sano ed è un luogo sicuro per i commerci».
Non era una difesa disperata quella che il dirigente portuale faceva, ma il frutto di una convinzione radicata.
Totò decise: non aveva bisogno d’altro ormai, era certo che qualcosa non andava. Due ipotesi si affacciarono nella sua mente: si trovavano alla presenza di una rete di connivenze, a più livelli, con un sistema di corruzione diffusa oppure il meccanismo dei controlli non funzionava.
In Italia non era la prima volta che succedeva e dietro la patina di efficienza veniva fuori lo spirito nazionale fatto di approssimazione. Tra questi due estremi era cresciuto un mo-stro che seminava veleni in giro per il Mediterraneo.
Salutò il suo interlocutore e si avviò all’uscita.
Una prima risposta l’aveva ricevuta, ora c’era bisogno di approfondire il meccanismo di imbarco, individuare i luoghi del porto dove avveniva, le aziende interessate.
Doveva raccogliere dati, testimonianze, riempire di fatti ac-certati ciò che dentro di lui era diventato più di un semplice sospetto.
Fuori lo aspettava Chiara, si era scordato della sua presenza: succedeva sempre così, perdeva la cognizione del tempo men-tre il lavoro si impossessava di lui.
«Ti ho fatto attendere, non mi scuso, il mestiere non mi consente tempi certi».
«Non giustificarti, non sono qui per te, ma perché voglio che tu sia messo nelle condizioni di scrivere del marcio di
questa faccenda e farlo nel migliore dei modi. Sarò a tua disposizione finché rimani in città: immaginami come una segretaria. Scommetto che il colloquio all’Autorità non ha prodotto niente. Loro sono interessati ad altro, hanno delle lenti appannate dalla preoccupazione per il futuro del porto e vogliono difendere la città. Non affermo che sono in mala-fede, ma vivono, con disturbo, la nostra presenza: siamo un fastidio inopportuno, come quello causato dalle mosche che ronzano intorno e loro non capiscono che lo fanno perché hanno avvertito l’olezzo del letame».
Era lontana mentre parlava, la sentiva attaccata ad una spe-ranza, investita di un compito, ma non avvertiva in lei niente di rumoroso, di eccessivo o pretestuoso. Non assumeva delle pose fittizie e non sembrava recitare una parte.
Vicino a lei sentiva lo scorrere della vita, non lo avvertiva da tempo in una donna. Tutto ciò lo indispettiva, lo rendeva insicuro e, per riaffermare sé stesso, scortese.
«Nel porto non succede niente: Salvatore ti voglio raccon-tare la storia di una nave, la Fata Morgana partita da qua verso l’Africa per Lomè nel Togo, ma mai arrivata a destinazione. Prima del viaggio la nave era stata sequestrata dalla magistra-tura nel nostro porto, ma, poi, partita con un carico ufficiale regolare ha fatto scalo a Cipro e in Libano e infine è ricom-parsa in Grecia con un altro nome, Boote. Non sappiamo cosa trasportasse, ma la rotta ufficiale non rispettata, gli scali – non dichiarati – effettuati, la merce scomparsa senza uno straccio di scarico, proiettano grandi ombre sull’accaduto».
«Hai ragione, le ombre, troviamo solo loro».
La osservai, aveva avuto le mie stesse percezioni.
«Non riesco a fare un passo in avanti, a collegare i vari pas-saggi e non è possibile che tutto questo sia episodico, che avvenga per caso. Dobbiamo trovare le prove per emergere dalla nebbia in cui brancoliamo».
Per la prima volta, notò di essere osservato con interesse. Leggeva nella sua espressione attenzione: era riuscita a coglie-re in lui la sua stessa curiosità.
«La nebbia è utile per chi non vuole lasciarsi scorgere, ma i movimenti avvengono lo stesso e dietro le ombre ci sono
gli uomini e noi li abbiamo intravisti e ne abbiamo paura, la paura che accompagna l’ignoto, e non riusciamo a valutare il pericolo».
Gli occhi della donna erano diventati grandi: «Non sappia-mo dare nomi agli episodi, ma se provi a parlare con chi nel porto ci lavora e non solo con le istituzioni qualcosa riuscirai a mettere assieme».
Ascoltandola decise che avrebbe fatto il pezzo titolandolo:
Le ombre si muovono, le navi non arrivano e i carichi spariscono.

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