Rosso il romanzo di Mario Aloe cap. 3

ROMA, 14 DICEMBRE 1995 ORE 11:10

«L’uccellino ha finito di beccare. Il campo è libero». Il telefono si abbassò, la comunicazione sulla linea riservata era stata concisa ed essenziale. Il lavoro era stato eseguito; un intervento necessario. Non potevano permettere che il coper-chio venisse sollevato e tutto sbollisse fuori. Alcuni funzionari dello Stato avevano un concetto idealista del servire, credevano di ricoprire dei posti per far rispettare la legge, per garantire un principio di giustizia e, così facendo, non si rendevano conto dei danni che causavano con la loro sciocca ricerca della verità. La verità? A cosa sarebbe servita la verità! Avrebbe risolto il problema consentendo lo smaltimento delle scorie? Avrebbe mantenuto tranquille le popolazioni locali? Da qualche parte dovevano pur portarli i rifiuti.La nazione, sulla spinta di sciocche paure e di un’isteria col-lettiva, aveva abbandonato il nucleare chiudendo le centrali, disperdendo il patrimonio di tecnologia accumulato e accen-tuando la dipendenza dagli arabi.Pensavano, forse, che fosse questa la soluzione al problema energetico? Ora l’interesse nazionale era nelle mani degli islamici e di quel dittatore arabo dai capricci incontrollabili. Una nazione che si faceva dettare la linea politica da quattro fanatici ed incapace di trovare e percorrere la propria strada. La volontà del popolo si era espressa con un referendum, non potevano ignorarlo, far finta di niente come se nulla fos-se accaduto: anche loro avevano dovuto adeguarsi. Detestava la violenza, la riteneva un esercizio necessario soltanto in casi estremi la chiedeva o autorizzava quando il pericolo per gli interessi dell’Italia diventava evidente ed im-mediato. Sedeva là in quel suo ufficio ormai da decenni. Non era il direttore, non guidava la struttura sebbene la conoscesse perfettamente. Oltre che le varie parti del palazzo, non gli erano ignoti gli animi degli uomini che vi lavoravano, gli intrighi e le cordate che lo popolavano. Non spettava a lui mantenere i contatti con le istituzioni. Il governo e il comitato parlamentare non avevano cognizione del suo ruolo: lui era agli occhi del pubblico un importante dirigente dello spionaggio. Dopo il fallimento delle intimidazioni ai magistrati calabre-si erano dovuti intervenire… Aveva sperato che qualche storia di sesso sparata sui giorna-li e una campagna di disinformazione sarebbe bastata a bloc-care l’indagine. A nulla erano servite le cimici installate nella procura di Catanzaro, il pedinamento dei giudici, la presenza indiscreta di loschi figuri davanti alle loro abitazioni e le intimazioni che ne erano seguite. Quel giovane poliziotto aveva percepito la dimensione del traffico, aveva raccolto carte, riascoltato la capitaneria di por-to, fatto tesoro del racconto sul ritrovamento della mappa sul-la motonave Salvezza spiaggiata sul Tirreno calabrese e adesso era ad un passo dalla meta. Non si pentiva.Cosa era la morte di un uomo a fronte dell’interesse nazio-nale? Un sacrificio necessario e dovuto: lui era lì per fare il lavoro sporco, anche questo. Aveva disapprovato quei colleghi che, nel tempo, avevano lavorato a svolte autoritarie e, in alcuni casi, aveva fatto giun-gere segretamente ai giornali dossier ed informative per bloc-carli. Li aveva considerati degli avventurieri, dei dilettanti. Uomi-ni privi di visione d’insieme, incapaci di vedere le mutate con-dizioni sociali, di percepire la dimensione globale dell’econo-mia e i nuovi compiti a cui dovevano adempiere. La democrazia era ormai forte e radicata e il sistema di rela-zioni di cui faceva parte ne correggeva gli eccessi, impedendo agli estremisti di accedere al potere salvaguardando, in questo modo, gli interessi delle elite. Da sempre era stato introdotto tra gli eccelsi.Anche lui pensava che i migliori dovessero governare la na-zione e che il popolo necessitava di essere guidato, una guida tanto forte quanto sapientemente celata. Ricordava sempre il bellissimo verso di Omero a lui caro “…i re pastori di uomini..”., questo erano loro: pastori degli uomini di oggi, di un gregge sterminato di uomini che si il-ludevano di avere il destino a disposizione, di essere padroni delle proprie vite. A volte li vedeva correre per le strade della città, affaccen-dati come tante formichine e lui si era assunto la cura delle loro esistenze. Non c’era bisogno di golpe, di restringimento degli spazi democratici, di sospensione delle libertà. Considerava i portatori di queste logiche persone rozze, violente ed inutili che affermavano la propria personalità e praticavano il sadismo del potere, senza mediare gli istinti e metterli al servizio della causa. Appartenevano ad un’altra epoca, persone vecchie che lui adoperava come pedoni sulla scacchiera della società: un cam-po sterminato, con forze ed impulsi innumerevoli che andava ricondotto ad unità pena l’anarchia e la decadenza del paese.Lui era il trait d’union di tanti, a lui si rivolgevano politici, magistrati, industriali, mafiosi e lui si sentiva come quell’Aga-mennone pastore di re, ruolo mille volte sognato tra i banchi di scuola e che nessuno metteva in discussione, come nessuno, oggi, si sognava di discutere la sua autorità. Gli piacevano i classici che, aveva sempre pensato, coglieva-no l’essenza dell’immutabile natura umana più di tanti trattati scientifici e scenari di esperti: pochi ed essenziali istinti gui-davano l’individuo.Discorreva spesso coi suoi amici dell’Università sugli arche-tipi e sulle pulsioni elementari dell’uomo. Si considerava un sapiente, conoscitore ed amante della cultura.Molti intellettuali erano prigionieri dei loro schemi, incapaci di percepire la necessità del male e la complessità del potere. Li considerava menti mediocri e cattivi maestri: non riu-scivano a comprendere che le masse andavano condotte per mano, accompagnate nelle loro scelte e che era necessario suscitare, di tanto in tanto, paure per bloccare le spinte “liberta-rie” che considerava l’anticamera del nulla. Era stato indispensabile farlo a Piazza Fontana, a Brescia, sui treni, a Bologna: eventi tragici, ma necessari. Il disordine sociale gli causava fastidio come quello morale, una sensazione tattile di sporcizia. Doveva far chiamare l’avvocato sul lago di Como per avvi-sare che il campo era stato liberato, ma occorreva pretendere che non facessero più sbagli: quella nave arenata sulle spiagge calabresi era stato un errore grave e chi commetteva sbagli simili doveva essere allontanato dalla rete. Pretendeva che il lavoro venisse portato a termine in ma-niera perfetta, non dovevano esserci crepe, non dovevano la-sciare tracce. I documenti ricevuti per la formazione della società finan-ziaria gli avevano fatto percepire il provincialismo dell’ini-ziativa: pochi agganci europei, scarsi contatti in Africa. Non potevano pensare che il quadro fosse così angusto. Coinvolgere i tedeschi e i russi era essenziale pena il falli-mento di tutta l’operazione. Era silenziosa la sua stanza. La scrivania era sgombra, per-fettamente pulita. Un bellissimo lume era collocato su un suo angolo, mentre sull’altro si vedeva un vaso con pitture policrome rappresen-tanti Ermete, araldo degli dei nell’atto di recare un messaggio agli umani. Lui era il messaggero degli dei e reggeva gli “equi-libri divini” in Italia. Dovevano costituire una serie di società nei paradisi fiscali delle isole della Manica, avrebbe coinvolto i servizi dell’Est Europa e del Sudamerica. Il luogo individuato era ideale per far scomparire nelle nebbie le partecipazioni e le origini delle società, nessuno sarebbe riuscito a risalire fino a lui. La fratellanza avrebbe fornito gli uomini d’affari e i capitali per l’impresa. In tanti avrebbero guadagnato somme ingenti, fortune sa-rebbero state create dal nulla, dal lago non dovevano creare problemi: erano stati geniali con l’idea delle capsule, una so-luzione efficiente ed economicamente vantaggiosa.Rifiuti speciali smaltiti con un abbattimento dei costi di quasi l’800% in luoghi lontani e nei mari del sud.La pace sociale non veniva messa a repentaglio, nessuno avrebbe protestato e neppure visto ciò che stava avvenendo. In Calabria tanti uomini d’onore dovevano rispondergli: non sarebbe stato un problema trovare manovalanza.Si avvicinò a un’antica carta araba del IX sec. d.C. del Me-diterraneo posta sulla parete. Rappresentava i luoghi alla rovescia: gli aveva suscitato sempre meraviglia un mondo al contrario ed ancor di più la constatazione del fatto che era realmente esistito. Gli arabi, allora, guardavano il mondo dalla loro parte, dai loro giardini profumati di Damasco, dai minareti de Il Cairo, dai loro palazzi di Baghdad. Udiva le loro voci, immaginava i loro discorsi, le carovane in arrivo, le merci da inviare nel barbaro occidente. Quel mondo era morto, adesso erano loro gli occidentali a guardarlo da nord a sud, erano loro ad aver raddrizzato le carte e rimesso le cose e la geografia al loro giusto posto.
Si aggiustò il nodo della cravatta. Il vestito perfetto, confe-zionato su misura, aderiva ad un corpo curato ed allenato. Gli anni non avevano intaccato il suo fisico e adesso ne contava cinquantacinque. Gli piacevano le cose belle e percepiva della bellezza il suo valore oggettivo. Godeva della vita, ma evitava il lusso, il consumo vistoso. Era quasi frugale nel cibo, detestava gli eccessi e le apparen-ze.L’unico prodotto che consumava volentieri era un bene im-materiale: il potere, non lo saziava mai.

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