
di Tonino Scala
Quante volte ho preso la Panarella. E ogni volta è rimasta impressa nel cuore come una carezza del vento che non dimentichi. Le ricordo tutte, le corse leggere da bambino, i pomeriggi di gioventù chiassosa, le salite da solo nei giorni d’esame, per trovare nel verde un po’ di silenzio e di frescura. Ogni viaggio era una pagina diversa dello stesso diario: un diario fatto di cavi sospesi, di speranze leggere come l’aria, di sguardi che si perdevano nel mare.
Ricordo la prima volta: avevo paura. Ero piccolo, troppo piccolo per capire, ma abbastanza grande per stringermi forte a mio padre. Otto minuti eterni, con il cuore che batteva come una campana pazza. Ma al ritorno… al ritorno già tutto era cambiato. Avevo fatto amicizia con il cielo, e mi sembrava di volare. Davanti a me, il golfo si apriva come un segreto svelato: il Vesuvio, il mare, le case arrampicate sulla costa. Tutto lì, a portata di sguardo, come un dono.
Poi vennero le gite in comitiva, le risate forti, le foto con i capelli al vento e i panini mangiati tra gli alberi secolari del Faito. E più avanti ancora, l’estate afosa giù in città e io su, tra i faggi e i castagni, a ripassare gli appunti prima degli esami, con il frinire delle cicale e il profumo della resina a tenermi compagnia.
Chi veniva a trovarmi sapeva che la Panarella era tappa obbligata. Era il nostro vanto, il nostro modo di dire: “guarda quanto è bella la nostra città”. Noi stabiesi ce la portiamo dentro quella bellezza, e far vedere la funivia era come mostrare una medaglia sul petto. Era il nostro biglietto da visita, il nostro orgoglio leggero.
E come dimenticare gli occhi di chi saliva per la prima volta? Sgranati, lucidi. Non facevi in tempo a dire «è partita», che già si spalancava davanti agli occhi uno scenario degno di un film di Sorrentino: mare, cielo, terrazze, barche, e quel lungomare antico che sembrava disegnato con il carboncino e l’oro. Lì in alto i problemi si dimenticano. La città si mostra per quello che è: smisuratamente bella, romantica, ferita ma fiera.
Ogni salita è attesa, ogni discesa è nostalgia. Diverse, come diverse sono le emozioni che ti lasciano dentro. Quando arrivi, dici sempre «Uà, è già finita?». Ma dentro di te lo sai: non è finita. Ti resta. Ti porti via un pezzetto di cielo, un respiro più largo, un pensiero che sale.
E poi, loro. I lavoratori della Panarella. Quelli che ti davano il benvenuto con un sorriso, quelli che ti spiegavano le regole con pazienza, quelli che ti guardavano salire e scendere con un orgoglio che si vedeva negli occhi. Per loro non era un lavoro. Era una missione. Era passione, cura, amore per la propria terra.
Oggi, però, quel ricordo si tinge di nero. Un nero freddo, che gela il cuore. Per chi ha vissuto tante volte quella salita, per chi ha respirato la felicità sospesa tra cielo e monte, il dolore è incredulo, paralizzante. Ci si chiede: com’è possibile? Dove si è spezzato quel filo? Come si è spezzato quel filo? Cosa non ha funzionato?
E ancora: c’è stata una colpa? È stato fatto tutto il possibile? Interrogativi che rimbombano nella mente e si aggrovigliano all’anima.
Non è il momento per le accuse. È il tempo del silenzio, del rispetto. Di un dolore che chiede spazio, che reclama verità. Ci sarà un tempo per le indagini, per i processi, per le responsabilità. La magistratura farà il suo corso. Ma ora bisogna fermarsi. E piangere. E ricordare.
Perché servono lacrime, sì, ma anche giustizia. Non vendetta – quella la lasciamo ad altri – ma giustizia vera. Per chi non c’è più. Per chi lavorava con dedizione. Per chi amava quella salita come si ama un rito. Per noi, per la città.
E per ogni sguardo che si è perso nel blu del mare da lassù, pensando che da quell’altezza il mondo fosse davvero migliore.
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