Un giorno che non va

Scrissi questa riflessione, racconto, ballata, non so come definirla, tempo fa in uno dei miei giorni tristi, uno di quei giorni che non vanno. Penso che sia adatta al momento…

Pino Daniele per farmi compagnia canta. Canta “Un giorno che non va”.

“…Ma perchè non ridi più e continui a dire che la tua vita poi, non è vissuta in un angolo vero dove tutto è sincero ma è solo un giorno che non va…”.

“Un giorno che non va” album “Vai mo’”, anno 1981, il quarto lavoro del Pino che mi piaceva. Avevo la cassetta l’ascoltavo, la riascoltavo. “Un giorno che non va” veniva prima di “Ma che ho” e dopo “Have You Seen My Shoes”. Ho imparato a conosce questo album da grande, da quasi sedicenne quando Carmine mi fece conoscere questo cantante che per me era uno sconosciuto.

Millenovecentoottantuno, avevo sette anni. Sette anni e settemila pensieri, settemila sogni.

Una casa scarrupata dal terremoto dell’Irpinia. Una cucina retta dai tubi innocenti. Noi dentro noncuranti di cosa ci potesse capitare. Noi dentro per non stare fuori, nei container. Papà non voleva. Meglio insieme in una casa scarrupata che in albergo o in un container. Era piccola la nostra casa. Pochi metri quadri. In via Napoli ad un passo dalla città e dalla periferia estrema. Una casa, un’unica stanza che papà aveva diviso con dei pannelli in cartongesso. Di quelle case antiche con i soffitti alti, quelle case dove d’estate è fresco e d’inverno basta un piccolo braciere, ‘a vrasera, con un po’ di muniglia, per riscaldare una vita già calda. Poveri ma belli, dove ti manca tutto ma non ti manca niente! Il cesso era fuori su un pianerottolo. Piccolo papà aveva ricavato anche una doccia, un piccolo scaldabagno, 20 litri. Facevamo a turno per lavarci. Veniva prima lui il capo della casa che lavorava. Faceva il muratore, ‘o fravecatore. Avrebbe potuto ancora farlo nonostante gli acciacchi e le malepatenze di un lavoro di braccia, di sudore, di calce negli occhi, di martelli, chiodi e chiancarelle. Di cardarelle, di sfravecacina e di sacchette caricate sulle spalle. Sacchette che ti consumano. Mamma dice sempre che quando si sono conosciuti, lei e papà erano la stessa altezza. Poi col tempo, con il lavoro pesante papà si è accorciato. Non so se è così, ma c’ho sempre creduto. Poi la crisi, la mia passione per la politica ed addio lavoro. Nessuno prende a lavorare un ciuccio di fatica se il figlio si mette a fare il moralista e fa le crociate contro il cemento che ci entrato anche dentro il buco del culo!

Dal balcone ingresso di quella piccola stanza che chiamavamo casa, perché quella era la nostra casa, casa in affitto cinquantamila lire al mese si vedevano dei campi. Campi e case per lo più abusive, tranne la nostra. Un antico palazzotto di inizio novecento. Di quelli con i grandi portoni senza porta. Con gli archi, archi in piperno penso. Ci giocavo a pallone in quel portone. A pallone e a tennis. Tennis mo’ ero solo contro il muro, una sorta di squash dei poveri.

C’erano i pomodori, tanti pomodori che don Mario l’intellettuale contadino coltivava in quel piccolo appezzamento di terreno. Mario mi voleva bene così come la moglie. Mi aiutava a fare i compiti, era un mostro d’intelligenza e di sapienza per me, eppure non era andato all’università. Leggeva, leggeva tanto. Ricordo che quando entravo nel suo soggiorno tutto era buio, una sola lucetta di quelle sbilenche e fioche illuminava un libro o il settimanale, Famiglia Cristiana. Lui su una veccia poltrona, con addosso una coperta e leggeva. Leggeva tanto.

Di fronte abitava Peppe capa Janca. Sembrava un personaggio uscito dai film di Sergio Leone. Aveva dei baffi bianchi giganti. Era il papà della mia amica con la quale avevo fatto tutte le scuole del quartiere. Dalle suore alle medie. Era un boss, io non lo sapevo. Era il capo quartiere, l’uomo di Raffaele Cutolo in un ex quartiere operaio. Nel tempo libero giocavo con lui a calcio, a carte. Fu lui che mi insegnò a giocare l’unico gioco con le carte che ancora conosco: il ciuccio. Quando l’ammazzarono piansi. Piansi nel vedere del corpo immerso nel sangue, nel suo sangue vicino ad una saracinesca di una rosticceria. Piansi, piansi tanto, piansi per l’uccisione del padre della mia amica. Andavamo in classe insieme io e Maria elementari e medie, poi ci siamo persi di vista.

Un giorno che non va, in una vita che non va. L’unica cosa che va è questa bella canzone che sento. Una canzone che non ascoltavo da un bel po’ di anni.

“Ma perchè non parli più e non bevi il tuo caffè…” caffè preso, caffè e latte, latte e caffè, lattemacchiato. Non ho parole, voglio stare zitto in questa vita caotica che non mi da respiro. Perché? Non lo so, so solo che è così so solo che è un altro giorno che non va. Un altro giorno che deve passare in fretta, così come deve passare in fretta un’altra notte insonne. Inizia a fare caldo anche di notte ed io sudo per in pensieri, con i pensieri. Mi giro, mi rigiro, mi alzo, mi rialzo. Acqua tanta acqua, tengo sete. Piscio tanto piscio. Non tiro lo scarico non voglio svegliare nessuno.

Un giorno che non va… quando arriveranno, se arriveranno giorni migliori. Perché quando anche ci son stati nulla è cambiato e le cose mi hanno preso, gli agenti esterni mi hanno condizionato. Hanno condizionato una vita che andava, che andava vissuta in altro modo.

Voglio di più, so che  è un’altra canzone sempre del Pinotto nazionale, ma è quello che voglio.

Voglio di più in un giorno che non va, che consuma una vita di stenti e di rabbia. Di voglia di dire, di fare, di dover riuscire senza l’aiuto di niente e di nessuno. A volte sembra una condanna, sei onesto, sei un uomo d’amore, allora devi soffrire anche quando le cose vanne bene. Voglio di più di quello che vedi, voglio di più di questi anni amari… voglio di più in questo giorno che non va che consuma una vita che va perché deve andare. … sai che non striscerò per farmi valere … è solo un giorno che non va nun te preoccupà!

Notte che se ne và in una città al buio. In un mondo fatto di luci spente. Spente come l’insegna dell’ultimo caffè. Le strade son deserte, ma che … a Napoli la gente è sempre in strada. C’è una città che vive di notte, una città che vuole vivere la capitale del mezzogiorno dopo mezzanotte. Notte di chi beve, notte di chi fa il palo, notte di chi fa il metronotte. Notte dopo la mezzanotte con una luna bugiarda che con questo suo romanticismo fotte una città arrabbiata. Rabbia, ‘o fele che esce da un fegato amaro. Fegato scoppiato, fegato fegato fegato spappolato. Spappolati gli animi, gli sguardi diffidenti che diffidano anche del padre e della mamma. Che diffidano di questa terra martoriata. Viente ‘e terra spazza quest’ansia, quest’aria infestata, quest’aria malsana  ricca di fili d’amianto. Le case in lontananza sembrano un presepe che stona in questa notte di centro periferia del mondo. ‘o gigante da’ muntagna non urla più. È in letargo. Dorme, aspetta che cambino i giorni, le nottate insonni di un popolo che stenta ad arrivare alla terza settimana di un mese che viene e va. Di un mese che passa in fretta come passano i giorni in una vita senza senso e con molti stenti.

Viente ‘e mare puortece cu te per terre lontane, lontane dallo sguardo, dal cuore ferito a morte.

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